Il primo giorno di scuola degli insegnanti è lo stesso da tempo immemore.
L’1 settembre colleghe e colleghi si ritrovano al primo collegio docenti, in un’esplosione di chiacchiere e abbronzature e racconti di vacanze e libri letti e qualche ardito che suggerisce che sarebbero serviti altri giorni di ferie.
Prendere i posti all’orario stabilito è pressoché impossibile ed è singolare e confortante vedere insegnanti di ogni età salutarsi e rivedersi con una certa serenità.
Non sono ancora cominciati i ritmi forsennati di lezioni e formazioni, riunioni e burocrazie; ci si crogiola ancora un poco nelle aule vuote ma mai silenziose (è risaputo che gli insegnanti parlano molto di più degli studenti e spesso nello stesso momento).
Come in una danza conosciuta, i colleghi dell’infanzia si raggruppano, quelli della primaria si abbracciano e quelli della secondaria si scrutano. E poi mischiate i gradi e le azioni, che va bene uguale.
Il piccolo manipolo dei nuovi arrivati cerca di capire da che parte tira il suo vento e come trascinati da una corrente invisibile vengono dirottati nel loro grado, tenendosi un po’ in disparte, cercando nella folla un viso già visto in qualche supplenza, un occhio amico da agguantare al volo. Perché tutte e tutti vogliamo sentirci accolti in un luogo nuovo, anche se con un semplice saluto o un “ti ricordi di me?”.
C’è poi una differenza tra le ragazze più giovani e i precari più scafati: chi è appena uscito dall’università ha uno sguardo tra lo spaventato e l’incuriosito, pieno di proposte ed entusiasmo; il precario ultratrentenne invece è un po’ perso, segue un copione già visto altre volte, aspetta a farsi un’idea, rigorosamente dopo i gossip di ex colleghi che sono già passati in quell’istituto.
Il preside richiama all’ordine, ci si siede e si comincia.
Ricordo ancora il mio primo collegio docenti: credo di aver capito un quarto di quello che era stato detto in quell’ora e mezza. Non conoscevo il gergo, le sigle, una marea di parole date per scontate e che un* neofita non sa distinguere per importanza né per senso logico.
“Ricordate di caricare le ore per il FIS.
Il GLH si riunirà da solo venerdì.
L’account di DRIVE e di NUVOLA non corrispondono, chiedeteli in segreteria.”
Ah, la segreteria, questo luogo dai ritmi forsennati e dai moduli introvabili, fatto da persone che la abitano da anni e nuovi arrivati che devono imparare una marea di cose, e pure in fretta. Non sai se puoi entrare, quando puoi bussare, se è il momento buono per firmare, quando sarà il momento di chiedere.
Se le segreterie smettessero di lavorare per un solo giorno, la scuola non andrebbe né avanti né indietro, rimarrebbe immobile in un girone infernale di incompiuto, materiale mancante e personale sottonumerato. Ma l’insegnante appena arrivato non lo sa, non sa cosa c’è là dietro, il nervosismo di chi sa che un click sbagliato può condizionare la carriera di un docente, la mole di richieste di qualsiasi genere, le lamentele infinite da parte di chiunque. E chiunque vuol dire davvero chiunque: la nonna di un bambino appena iscritto, il corriere, il rappresentante dei libri di testo, i maestri, le prof, le maestre e i prof insieme, genitori di alunni passati presenti e soprattutto futuri, dottori, collaboratori, passanti (davvero, una volta ho sentito un passante lamentarsi).
Dopo un po’ lo capisci, ringrazi ottomila volte, non dai nessun sorriso per scontato.
E poi i nuovi colleghi, ogni anno tutti gli anni. Perché anche se sei di ruolo da una vita avrai nuove colleghe al primo di settembre (o all’inizio delle lezioni); se sei tu stesso un nuovo collega avrai nuove prassi, nuovi stili di insegnamento, nuove abitudini. Ogni anno un reset, con l’aggravante delle consuetudini della scuola precedente dove quella cosa si faceva in un modo completamente diverso. I più scaltri hanno capito che chiedere allo sfinimento è l’unico modo per avere risposte. I più timidi rischiano di non sapere una scadenza importante, perché tanto “l’ha detto il preside in collegio” ma nessuno sapeva che stesse parlando proprio di quello.
Ecco, io cerco sempre di dare un benvenuto caloroso a tutte e tutti gli insegnanti che arrivano per la prima volta. Qualcuno dice che la mia disponibilità sia eccessiva (e magari hanno anche ragione), ma non credo sia splendido sentirsi dire come prima cosa “quanto mi mancherà la collega dell’anno scorso” o addirittura “scusami ma io non volevo te come collega” (sì, mi è stato detto anche questo). Credo che l’accoglienza tanto dei colleghi quanto dei bambini e bambine sia il primo passo per impostare un buon anno scolastico, in cui dobbiamo convivere tutti. Bisogna faticare un po’, andare lenti per andare insieme, non lasciare indietro chi non conosce un linguaggio ormai rodato. Essere lasciati in disparte è una delle cattiverie più grandi che si possono fare ad un* collega nuovo o nuova; non includerla nei ragionamenti è il primo step verso le incomprensioni, uno spazio che purtroppo qualcuno volutamente stende per creare distanza.
Quelle colleghe lì, quei prof lì, io non li capirò mai. Lo faranno per sentirsi superiori? Per essere rispettati di più? Tanti nemici tanto onore? Non capisco. Essere poco accoglienti è solo controproducente. Essere fermi sulle proprie posizioni, non calcolare che l’esperienza è valida solo se va a braccetto con l’innovazione, credo sia un grosso errore.
Arriva il secondo collegio, quello dell’attesa dell’imminente semaforo verde, il giorno prima dell’inizio. L’aria è già cambiata, è più frizzante, c’è un sentore di impazienza misto a preoccupazione. Sarò all’altezza? Quel ragazzo sarà cresciuto? Quella bambina avrà ancora paura di lasciare la mano della mamma? Quali nuovi equilibri dovremo affrontare?
Un mio studente dell’università, alla mia richiesta di raffigurare cosa per ognuno di loro dovesse saper fare e saper essere un*insegnante, ha disegnato sé stesso in bilico, intento a tenere in equilibrio su mani, testa e un piede diverse abilità, tra cui essere motivatore, valutatore, esperto di emozioni e buon ascoltatore.
Quell’immagine mi è rimasta impressa perché, a differenza di altre illustrazioni che avevo visto sul web, dava l’idea estremamente reale di un bilanciamento complesso e delicato e della consapevolezza che basta un filo di vento (un nuovo arrivo? un genitore che crea scompiglio? una nuova collega con un carattere difficile?) per far cadere tutto.
Cerchiamo quotidianamente di far filare tutto liscio. Ci pensiamo durante l’estate, nelle due settimane prima dell’inizio, quando accogliamo studenti e studentesse per il quinto o terzo anno consecutivo o quando li vediamo per la prima volta, mentre spieghiamo in modo coinvolgente e innovativo o dopo una giornata in cui ci sembra di non aver concluso nulla.
Oggi con i “miei” ragazzi e ragazze di quinta abbiamo parlato di aspettative, paure, bocciature che possono e devono essere considerate sotto più punti vista, di convinzioni e responsabilità. Del senso di appartenenza ad un gruppo.
Me li ricordo implumi che mi chiedevano qual era il mio secondo colore preferito.
Ora mi chiedono di ragionare insieme sul loro futuro.
Poi, “perfida”, li ho riportati sulle moltiplicazioni col moltiplicatore a due cifre e siamo ritornati su numeri e discorsi che, mi rendo conto, non sono tanto interessanti quanto capire cosa li aspetta là fuori, ma sapere che 8x9 fa 72 ha effettivamente un effetto calmante!
L’anno è cominciato da 9 giorni, ma mi è già calata addosso un’assurda nostalgia di quello che non è ancora successo.
Buon anno scolastico a tutte e tutti!
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